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Ti ricordi il nostro cadere in versi

a casaccio? Era infantile il giocare,

ma decrepito il senso – niente spazio

per un’età di mezzo. Era versare,

non verseggiare; far scolare il dire

fra gli anfratti dei volti troppo timidi,

immischiarsi in giochi sporchi di sillabe.

Ci conoscevamo, bisogna ammetterlo:

ero il tuo oroscopo e tu eri il mio

quando ti versavo un «Buongiorno, cara»

fra le labbra e la tazza di caffè.

 

*

 

Alludere alle mani quando parlo

del dolore. Perché è tutto nel tocco:

della dita sulle tempie, dell’unghia   

sul dente, del palmo sul fondo.

 

*

 

A Vittore Fiore

 

Qui, se mai verrai – un posto che non sei,

non invaso ancora dai tuoi passeggi,

un appunto di luogo, bozza del tuo

passaggio raro, poca cosa, poca

vita – ti chiedo: gestiscilo bene

il saluto. In un gesto sbandierato.

Fanne una metafora esagerata,

un qualcosa da scrivere del tipo:

“Tergicristallo sulle mie lacrime

il tuo braccio (lontano) fa Ciao.”