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Ti ricordi il nostro cadere in versi
a casaccio? Era infantile il giocare,
ma decrepito il senso – niente spazio
per un’età di mezzo. Era versare,
non verseggiare; far scolare il dire
fra gli anfratti dei volti troppo timidi,
immischiarsi in giochi sporchi di sillabe.
Ci conoscevamo, bisogna ammetterlo:
ero il tuo oroscopo e tu eri il mio
quando ti versavo un «Buongiorno, cara»
fra le labbra e la tazza di caffè.
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Alludere alle mani quando parlo
del dolore. Perché è tutto nel tocco:
della dita sulle tempie, dell’unghia
sul dente, del palmo sul fondo.
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A Vittore Fiore
Qui, se mai verrai – un posto che non sei,
non invaso ancora dai tuoi passeggi,
un appunto di luogo, bozza del tuo
passaggio raro, poca cosa, poca
vita – ti chiedo: gestiscilo bene
il saluto. In un gesto sbandierato.
Fanne una metafora esagerata,
un qualcosa da scrivere del tipo:
“Tergicristallo sulle mie lacrime
il tuo braccio (lontano) fa Ciao.”